di Francesco Fuggetta
I ricercatori dell’Università di Padova Diego Romaioli e Alberta Contarello spiegano le dinamiche legate ai pregiudizi nei confronti degli anziani
Padova – “Sono troppo vecchio per farlo”: quante volte abbiamo detto o pensato questa frase, riferita alle attività più disparate? Eppure, non è un pensiero tipico degli anziani: anche i giovani, spesso, si sentono limitati per questioni legate all’età. Il tema è stato affrontato recentemente da uno studio pubblicato sul Journal of Aging Studies: gli autori sono Diego Romaioli e Alberta Contarello, ricercatori del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata dell’Università di Padova, che ci aiuteranno a capire meglio queste dinamiche.
La popolazione continua a invecchiare progressivamente: quali sono gli effetti di questo fenomeno?
“L’invecchiamento della popolazione è uno dei grandi temi discussi in varie agende internazionali, anche se l’opinione pubblica, mediamente, non è ancora ben informata al riguardo. Si tratta di uno stravolgimento demografico che ha e avrà ripercussioni in ambito sociale ed economico. Ad esempio, si prevede che nei prossimi trent’anni il numero di persone attive sul lavoro verrà superato dagli inattivi, con conseguenze importanti sui sistemi previdenziali e di welfare. Per quanto ci riguarda, da psicologi sociali, siamo soprattutto interessati a una trasformazione nei modi di pensare delle persone che questo comporta. Stiamo infatti vivendo un periodo per certi versi paradossale: gli individui vivono mediamente meglio di qualche decennio fa e più a lungo, ma persiste una visione di invecchiamento come periodo caratterizzato da perdita e declino. Molte ricerche in tutto il mondo, invece, mostrano oggi che la terza, quarta e quinta età possono essere periodi di vita con rinnovate possibilità sul piano dell’arricchimento personale; stagioni della vita in cui le persone possono essere ancora attive, coltivare passioni e interessi, sviluppare relazioni e vivere stati mentali di incrementato benessere e serenità. Chiaramente l’agenda politica deve essere in grado di garantire alcune condizioni di tutela agli anziani, sul piano economico e sanitario, ma la nostra esperienza ci ha permesso di documentare storie di vita davvero in controtendenza all’idea più condivisa dell’invecchiamento come declino”.
Quali sono i pregiudizi subiti più frequentemente dagli anziani?
“Dopo quello ‘razziale’ e legato al genere, il pregiudizio relativo all’età è tra i più diffusi al mondo. Un dato interessante che è emerso dalle nostre ricerche è che spesso gli anziani pensano all’invecchiamento in modi più positivi degli adulti, ma avvertono che la società in cui vivono esercita un pregiudizio verso di loro. In alcuni casi questo pregiudizio viene interiorizzato e può avere conseguenze negative sul benessere soggettivo. Vale a dire che se un anziano sta bene e ha risorse, ma immagina che le persone che lo circondano abbiano di lui un’idea negativa per via dell’età, potrebbe iniziare a dubitare delle sue stesse capacità e alla fine convincersi di non essere in grado di fare qualcosa. I pregiudizi verso gli anziani ci portano a credere che siano persone necessariamente con menomazioni fisiche e ridotta intraprendenza, solitamente non in grado di apprendere cose nuove. Molti studi sostengono, invece, che alcuni problemi fisici dipendono soprattutto da fattori come lo stile di vita, piuttosto che dall’età anagrafica e che le fasi avanzate del ciclo di vita sono le migliori per riscoprire attività trascurate in precedenza. Addirittura esistono ricerche su anziani over 70 che hanno iniziato a fare body building o a svolgere sport anche a livello agonistico. Una ricerca che abbiamo da poco attivato presso l’Università di Padova è focalizzata sugli studenti ‘maturi’: uomini e donne di 60, 70, anche 80 anni che si sono iscritti a corsi universitari con il desiderio di ampliare le proprie conoscenze e di conseguire una o più lauree in ambiti di cui si sono appassionati, ma che per ragioni di lavoro o altro non sono riusciti ad approfondire prima”.
In che modo sono state condotte le vostre ricerche?
“Le nostre ricerche sono svolte soprattutto attraverso interviste e particolari metodi di analisi del testo che ci permettono di ricostruire le conoscenze condivise degli interpellati. Partiamo da una premessa: il linguaggio che le persone impiegano per descriversi e raccontare i propri episodi di vita è la via maestra per accedere al loro punto di vista e alla loro esperienza nel mondo”.
A quali risultati siete approdati?
“Lo studio che abbiamo pubblicato più di recente ci ha permesso di individuare una narrazione che abbiamo denominato TOF (Too Old For: troppo vecchio per), vale a dire un’abitudine retorica che porta le persone – non solo anziani, ma anche giovani e adulti – a descriversi come troppo vecchie per svolgere determinati compiti o attività. L’aspetto che ci ha sorpreso è stato ritrovare questa narrazione anche tra i ventenni e notare come l’idea di ‘vecchio’, intesa in senso dispregiativo, tendesse a variare a seconda dell’età: per un ventenne è il trentenne ad esserlo, per il trentenne il quarantenne, e così via. Chiaramente, il credersi troppo vecchi per… può limitare pesantemente il potenziale di vita di un individuo. Questo perché la mente funziona in un modo particolare: basta credere che una cosa sia vera, per renderla più probabile e farla accadere. Ecco perché è importante contribuire a disseminare discorsi utili e più funzionali rispetto all’invecchiamento”.
Quindi, secondo le testimonianze raccolte, il sentirsi “troppo vecchio per fare qualcosa” non dipende dall’età ma è uno stato mentale…
“Esattamente! Sentirsi troppo vecchi per fare qualcosa è chiaramente uno stato mentale e quindi indipendente dall’età. Ma quello che è importante sottolineare è che questo stato mentale risente moltissimo della cultura in cui siamo immersi e del tipo di discorsi che circolano attorno a noi. In altre parole, l’idea che alcune attività possano essere svolte o non svolte solo a determinate età è una norma sociale, più che un dato incontrovertibile o un destino. E quindi è suscettibile di cambiamento”.
Quali sono i limiti e le rinunce che ci auto-imponiamo in quanto “troppo vecchi”?
“I più vari. Dai nostri studi emergono alcune rinunce ricorrenti a seconda della fascia d’età, ma siamo convinti che il TOF possa essere decisamente subdolo e condizionare la vita degli individui in modi ancora inesplorati e imprevedibili. Tra i nostri partecipanti, i giovani sembrano pensarsi troppo vecchi per riprendere un percorso di studi dopo una breve pausa o un rallentamento. Questa narrazione può contribuire almeno in parte a generare il fenomeno dei NEET (Not in Education, Employment or Training, i giovani che non lavorano, né studiano), una tra le problematiche sociali più rilevanti nel nostro Paese. Gli adulti sono quelli che hanno mostrato di avere un’idea di invecchiamento più negativa. Tendono a pensare che sia ‘troppo tardi’ per prendere decisioni di svolta in ambito lavorativo o relazionale e, in genere, iniziano a restringere il proprio campo di interessi e attività per lo spauracchio della vecchiaia. Gli anziani, ancora, rischiano di ridurre anzitempo le proprie attività, di rinunciare a progetti e di impedire a se stessi di impegnarsi in compiti che richiedono l’apprendimento di cose nuove”.
Cosa possiamo fare per invertire questo pensiero limitante?
“Dal nostro punto di vista l’idea di essere troppo vecchi è innanzitutto una narrazione, un ‘si dice’ al quale molti possono opporre resistenza. Preferiamo non dire ‘tutti’ perché il gruppo di partecipanti da noi analizzato non includeva persone non abbienti, non scolarizzate o gravemente malate. Per questi la narrazione dell’essere troppo vecchi potrebbe essere anche un modo per descrivere le loro condizioni di vita e se una persona è ammalata o fa fatica a trovare di che mangiare, combattere gli stereotipi può non essere prioritario. Detto questo, abbiamo in effetti rilevato molteplici modi attraverso i quali le persone sfidano questo pregiudizio, utilizzando quelle che chiamiamo ‘contro-narrative’. Ad esempio, alcuni intervistati erano determinati a conservare il loro modo d’essere giovanile. Usavano l’espressione ‘forza di volontà’ per riferirsi al loro impegno di rimanere forti, vivaci e impegnati a tutti i costi. Altri erano consapevoli degli stereotipi e si sentivano in dovere di combatterli. Altri ancora sentivano di dover semplicemente agire nel modo in cui agivano; erano spinti dal desiderio di essere così come erano e tendevano a riconoscersi nelle attività che svolgevano: “se non continuo a correre, non sono più la persona che pensavo di essere!”. Non si tratta quindi di prescrivere una ricetta, ma di prendere consapevolezza che la narrazione del ‘sentirsi troppo vecchi’ è un luogo comune e, come tale, va usata con prudenza. Ciascuno, in base alla propria biografia e inclinazioni, potrà trovare un proprio modo per rompere questo pregiudizio e magari, conversando con amici e conoscenti, potrà proporsi come nuovo modello per ridefinire gli standard attorno all’invecchiamento. Da quanto emerge anche da altri studi, comunque, la soluzione non è tanto quella di continuare a emulare un attivismo frenetico, quanto di non rinunciare alle opportunità che la vita quotidianamente presenta, accogliendo anche un lato contemplativo e più rilassato del vivere”.