Sono nel piatto i segreti dell’invecchiamento attivo. I ricercatori sono al lavoro su un ampio progetto europeo contro fragilità dell’anziano e la sarcopenia: esercizio fisico, intervento nutrizionale personalizzato e l’utilizzo di specifiche soluzioni tecnologiche, il mix per contrastarle con successo. Una ricerca della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma evidenzia che 1 anziano su 3 si alimenta male e mangia anche cibo scaduto. Nei cibi si nascondono i segreti della longevità, capire quali siano i nutrienti che rallentano i naturali processi dell’invecchiamento è dunque un obiettivo fondamentale della ricerca sui processi fisiologici e patologici della senescenza. I ricercatori UCSC hanno sviluppato specifiche linee di ricerca sull’impatto della dieta su muscoli e cervello, organi fondamentali per invecchiare in salute. Anche a causa di carenze nutrizionali e scorretta alimentazione, spiega Francesco Landi del Dipartimento di Geriatria, Neuroscienze e Ortopedia del Policlinico A. Gemelli, “invecchiando si verifica una perdita di massa e forza muscolari, condizione nota come sarcopenia e associata a un rischio maggiore di eventi avversi (disabilità, riduzione della qualità della vita, perdita dell’autosufficienza, ricovero in lungo degenze o Rsa, mortalità). Allo stesso modo, la mancanza di specifici nutrienti (malnutrizione selettiva) è stata identificata come una possibile causa di deterioramento cognitivo e di demenza”. La sarcopenia e i disturbi cognitivi rappresentano le condizioni che maggiormente contribuiscono alla comparsa della “fragilità” dell’anziano. “Studi da noi condotti su modelli sperimentali – spiega Landi – hanno messo in luce che una dieta ipercalorica e i disturbi metabolici a essa correlati (quali, ad esempio, l’obesità e il diabete) impoveriscono la riserva di cellule staminali del cervello e alterano la funzione dei circuiti nervosi maturi causando un precoce deterioramento delle capacità cognitive. Di particolare interesse l’osservazione che alcuni di questi effetti siano trasmissibili alle generazioni future, come se la nostra alimentazione determinasse nella prole un imprinting in grado di influenzare non soltanto le capacità di apprendimento e memoria dell’individuo ma anche la sua suscettibilità al declino cognitivo”.
Maggio 21, 2015