Grazie all’applicazione di metodi actigrafici un gruppo di studiosi ha osservato la reciproca influenza sul profilo di attività motoria dei membri di una coppia
Può sembrare una conclusione scontata ma la conferma di come le coppie che vivono insieme da molto tempo si influenzino vicendevolmente nel praticare attività motoria ha anche un significato dal punto di vista riabilitativo. A una tale conclusione sono giunti i ricercatori dell’IRCCS Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano in collaborazione con i riabilitatori del Centro Medico Riabilita – Cooperativa Sociale Mano Amica Onlus di Schio-Vicenza i quali, dopo aver reclutato 20 coppie in salute, ne hanno monitorato ogni attività motoria per sette giorni su sette, 24 ore al giorno, grazie all’utilizzo di dispositivi actigrafici.
Si tratta di pratici sistema indossabili a forma di orologio simili in tutto e per tutto agli smartwartch – tranne che per la possibilità di fare e ricevere chiamate e messaggi – in grado di monitorare costantemente l’attività motoria di coloro che li indossano. Sono resistenti all’acqua, si tengono al polso anche di notte e riescono a registrare la quantità di movimento permettendo poi agli studiosi di esaminarla. “L’actigrafia è una tecnica consolidata per la misura di variabili correlate al movimento e all’attività fisica mediante sensori indossabili”, spiega l’ing. Marco Rabuffetti, del Centro Santa Maria Nascente, IRCCS Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano. “Tale registrazione si esegue in condizioni non controllate, a casa del paziente e ovunque si svolgano le attività della vita quotidiana, e pertanto non all’interno dell’ospedale dove il medico o il fisioterapista richiedono di svolgere certi test”.
Infatti, gli individui affetti da patologie come il Parkinson o altre malattie neuromuscolari, oppure quelli colpiti dagli esiti di un ictus possono essere sottoposti a esami quali il test del cammino dei 6 minuti in cui una persona cerca di percorrere la massima distanza possibile nell’arco di tempo indicato, anche se nella vita di ogni giorno raramente capita di praticare la deambulazione per intervalli di tempo così definiti. L’actigrafia permette di indagare come una persona si muova attivamente e produce risultati che si aggiungono a quelli dei test clinici. “Nell’adottare questa tecnica di misurazione ci raccordiamo ai principi delineati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che distinguono tra capacità e performance”, prosegue Rabuffetti. “La capacità è un parametro associato a vari test clinici, come quello del cammino dei 6 minuti, mentre la performance corrisponde alle attività che una persona svolge nella sua quotidianità. L’OMS tributa grande importanza alla performance poiché un paziente sottoposto a terapia non deve migliorare solamente sotto il profilo della capacità ma anche della performance e l’actigrafia ci aiuta a indagare a fondo queste attività”. Tale obiettivo è perfettamente allineato con le finalità di un percorso riabilitativo che punta a far raggiugnere al paziente performance via via migliori.
Anni fa, Rabuffetti aveva svolto un esperimento pilota monitorando l’attività giornaliera del figlio e di alcuni suoi compagni di classe osservando come la socialità influenzi la sincronia della performance. Successivamente, ha iniziato a monitorare persone colpite da emiplegia a seguito di specifiche patologie del sistema nervoso centrale che generano una paresi sul lato controlaterale del corpo (ad esempio un danno all’emisfero destro che si traduce in un deficit motorio nell’emisoma sinistro). Infine, nell’ultimo lavoro pubblicato sulla rivista Sensors Rabuffetti, insieme a Maurizio Ferrarin e Ennio De Giovannini, ha concentrato l’attenzione su coppie in salute che condividono da anni la vita quotidiana e l’attività motoria; le conclusioni di questa ricerca mettono in rilievo un elemento di novità non trascurabile. “La misurazione dell’attività di una persona giorno dopo giorno è ovviamente influenzata dallo stile di vita”, afferma ancora Rabuffetti. “Ma il calcolo dell’indice di movimento all’interno di una coppia sana ha messo in evidenza come vi sia un’associazione più forte con l’attività svolta con il proprio partner rispetto a quanto attuato spontaneamente dal singolo individuo. Non è un dato scontato e conferma l’importante ruolo svolto dal singolo partner, all’interno della coppia”. Il pregio del lavoro dei ricercatori milanesi e vicentini è stato quindi quello di riuscire a quantificare questo rapporto di correlazione motoria grazie a dei semplici dispositivi portatili: a ben pensarci molti smartwatch sono in grado di registrare i passi che facciamo e le kilocalorie spese durante un allenamento e l’impiego di strumenti con potenzialità ancora maggiori ha permesso di gettare uno sguardo approfondito all’interno delle dinamiche di coppia, notando quanto i profili di attività motoria dei singoli siano in relazione.
La tendenza ad associare i propri comportamenti e le proprie abitudini si realizza in molte specie naturali e diventa evidente quando si pensa ai grandi erbivori che si muovono in branco o agli stormi di uccelli che solcano il cielo nella classica configurazione a “V”, dove ogni colpo d’ala di un esemplare sostiene quello più prossimo, risultando in un comportamento sociale di estrema utilità durante le migrazioni annuali sui lunghi tragitti verso i paesi caldi.
Ma per quanto riguarda la specie umana? Non c’è dubbio che homo sapiens abbia sviluppato una forte attitudine alla vita in società tuttavia è interessante osservare come il grado di influenza reciproco all’interno delle coppie che hanno alle spalle molti anni di vita coniugale possa essere particolarmente solido. Ne consegue che le attività motorie che si realizzano a seguito di nuovi apprendimenti sono rese possibili attraverso una positiva relazione psicologica e affettiva fra i partner e regolate da complesse attivazioni dei propri circuiti neuronali cerebrali.
A tali conoscenze gli autori si sono rifatti per avanzare le ipotesi di sviluppare nuovi programmi educativi con valenza riabilitativa all’interno della coppia. “Questi potrebbero essere attuate dal partner sano nei confronti del proprio caro, qualora fosse affetto da una patologia con menomazioni motorie disabilitanti, ovviamente attraverso una adeguata formazione delle competenze del riabilitatore”, afferma il dott. De Giovannini. “Tali considerazioni appaiono stimolanti in quanto fanno intravvedere come possa essere valorizzato anche il ruolo dei caregiver. È possibile quindi pensare che, una volta adeguatamente ‘istruito’ il caregiver possa non solo svolgere la propria attività assistenziale nei confronti dell’anziano ‘fragile’ affidatogli, ma a seguito della compliance positiva instaurata con l’assistito, possa anche attuare semplici stimolazioni per svolgere delle attività motorie insieme. Da molti anni conduco la mia attività clinica riabilitativa a favore delle persone affette da malattia di Parkinson e i risultati di questo interessante studio rappresentano un’occasione per arricchire sul piano terapeutico il percorso riabilitativo a favore dei malati. Insieme alla mia equipe multidisciplinare, composta da medici, fisioterapisti, logopedisti e neuropsicologi ho cominciato a sviluppare nuove modalità riabilitative con valenza educativa, fatte apprendere al soggetto sano affinché siano poi erogate al partner malato”.
Tutto ciò fornisce gli elementi per pianificare interventi di riabilitazione con cui stimolare o incrementare l’attività motoria dei malati, coinvolgendo nel loro percorso assistenziale i caregiver e producendo un piano di allenamento condiviso che arrechi beneficio tanto ai malati, quanto a color che di essi si prendono cura. Perché è bene ricordare che la salute del malato equivale a quella del caregiver, il primo a prendersi cura di tutte le necessità quotidiane di chi soffre.
di Enrico Orzes