Un coniuge con uno stile di vita attivo e coinvolgente può essere fondamentale nel percorso terapeutico di quello malato
Per molte persone la diagnosi di un tumore o di una grave malattia degenerativa può costituire un muro così alto da non poter essere scavalcato: se lasciati da soli di fronte al problema molti si sentono impotenti, sopraffatti, e rinunciano a tentare la scalata – che a volte si sa già essere impossibile. Invece, tutto cambia quando si ha al proprio fianco qualcuno che faccia da sprono e, con l’esempio, inviti a non lasciarsi andare prima del tempo ma a fare di tutto per risalire quelle ripide pareti. Seppur nella consapevolezza che passare dall’altra parte non sarà possibile. All’interno delle coppie che hanno trascorso insieme gran parte della loro esistenza si forma proprio questo genere di empatia che può essere tradotta in un comportamento attivo grazie a cui il partner sano influenza positivamente le abitudini di quello affetto da patologie neurologiche, come il Parkinson.
È ciò che hanno esplorato i ricercatori dell’IRCCS Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano, in collaborazione con i colleghi del Centro Medico Riabilita – Cooperativa Sociale Mano Amica Onlus di Schio (VI) e del Dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina Traslazionale dell’Università degli Studi di Milano. Nel loro studio, recentemente apparso sulla rivista Sensors essi hanno dato seguito a un programma cominciato mesi fa e incentrato sull’associazione tra persone che, vivendo e invecchiando insieme, condividono uno stile di vita simile : i risultati del primo studio avevano messo in evidenza come le coppie sane – attentamente monitorate con l’impiego di dispositivi actigrafici – esercitassero un’influenza reciproca sulle loro attività fisiche.
“Col nostro precedente lavoro avevamo dimostrato che l’associazione tra l’attività fisica di due componenti di una coppia da lungo tempo insieme è maggiore di quella che si riscontra tra persone che non condividono ogni giorno le stesse abitudini”, afferma Marco Rabuffetti, ingegnere presso il Centro Santa Maria Nascente, IRCCS Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano. “Tutto ciò ha evidenziato l’esistenza di un effetto traino dell’uno rispetto all’altro. Non sappiamo con certezza se sia solo il partner più attivo a trainare quello meno attivo, tuttavia i nostri modelli ci hanno confermato che esiste un’associazione reciproca”.
Nel secondo articolo gli studiosi hanno allargato la loro indagine a coppie in cui uno dei due componenti è affetto da malattia di Parkinson. Questa condizione neurologica è caratterizzata da tremore, rigidità muscolare e un progressivo rallentamento dei movimenti (bradicinesia) che si traduce in una costante difficoltà a cominciare i movimenti volontari. I malati conservano le capacità intellettive (in certi casi però la malattia può essere associata a forme di demenza di varia gravità) e la sensibilità ma, man mano che la patologia avanza, assumono un atteggiamento posturale detto “camptocormico”, caratterizzato da flessione del capo e del tronco e da adduzione degli arti superiori e inferiori (che risultano cioè flessi e portati vicino alla linea mediana del corpo). Infine, l’espressione facciale tende a una progressiva immobilità con rare occasioni di ammiccamento.
Il percorso terapeutico comprende svariati farmaci – fra cui la levodopa e la carbidopa – ma un ruolo non secondario è affidato alla terapia fisica la quale, pur non arrestando la progressione, propone una serie di esercizi per sostenere la deambulazione e il linguaggio, riducendo la disabilità e migliorando lo stress emotivo. “Con questo lavoro volevamo vedere se, nonostante l’evidente asimmetria tra i due componenti della coppia, l’associazione precedentemente registrata in una coppia sana permanga ancora”, prosegue Rabuffetti, primo autore di entrambe le pubblicazioni. “Il risultato è che tale associazione resiste ma diminuisce di forza col progredire della malattia. In coppie in cui uno dei due è affetto da una forma iniziale di Parkinson l’associazione è ancora molto marcata e ciò significa che se il partner sano assume uno stile di vita più attivo questo, in virtù dell’associazione, esercita un effetto benefico sulla controparte malata e la induce a cercare una maggior attività fisica”.
Come nel precedente articolo, i ricercatori hanno fatto ricorso a dispositivi actigrafici per verificare l’esistenza di tale relazione all’interno delle coppie, le quali sono state monitorate giorno e notte per 7 giorni di fila tramite un dispositivo indossabile simile a uno smartwatch. Agli indici già considerati sono stati aggiunti parametri specificamente legati alla gravità e allo stato di avanzamento della malattia e, alla fine, i dati raccolti sono stati elaborati in accordo a modelli matematici prestabiliti.
“Abbiamo confermato l’importante ruolo esercitato dal partner sano all’interno di una coppia in cui sia presente un malato di Parkinson”, conclude Rabuffetti. “Nelle fasi avanzate di malattia, quando i sintomi del Parkinson rendono complicato identificare un profilo di attività comune, l’intensità dell’associazione si riduce ma nelle fasi iniziali essa è ben evidente. Pertanto, se si creano le condizioni per uno stile di vita più attivo, è possibile auspicare una riduzione della disabilità imposta dalla malattia”. È questa l’ipotesi che ora potrà esser tradotta in un percorso educativo facente perno sul coniuge sano e sulla sua capacità di trainare attivamente il malato, coinvolgendolo in una serie di attività che portino beneficio e riducano il peso della malattia.
Di certo, non tutti i muri possono essere oltrepassati ma una mano tesa è sempre l’occasione per fare un tentativo.
Enrico Orzes